La priorità è la questione culturale


Scritto da Iain Chambers da il Corriere del Mezzogiorno, 24-06-2009 08:27

Caro direttore, ispirato dalla lettura del tuo libro, Bassa Italia (Guida, 2009), vorrei parlare di un problema che ritengo centrale nella questione politica in Italia in questo momento: quella rappresentata dalla dimensione culturale. Le mie osservazioni, come nel tuo libro, partono da Napoli e il Mezzogiorno, ma investono l’intero quadro nazionale. La mia impressione è che, ormai, su tutte, prevalga l’idea che la politica sia sempre primaria.

C’è una inflazione della «politica», soprattutto nelle sue forme istituzionali, che riempie tutti i «vuoti» del tessuto storico e sociale. La cultura, marginalizzata dalle pretese della politica, è così relegata a un livello secondario.
Vorrei invece insistere sulla centralità della cultura nell’elaborazione delle forme della po­litica. A mio avviso, in quest’ottica diventa possibile ripensare criticamente sia l’anoma­lia attuale dell’Italia nello scenario politico-cul­turale del Primo Mondo, sia l’eredità di una se­rie di questioni apparentemente senza via di soluzione, come la «questione meridionale» o quella rappresentata dal caso Napoli. È anche vero che, nel mio caso, si tratta di uno sguar­do obliquo, marcato da un accento anglosasso­ne, ma è uno sguardo maturato in più di tren­ta anni di vita a Napoli, nel sud dell’Europa.

Penso, intanto, che sia il caso di iniziare a spazzare via la logica univoca della modernità che rende il Mezzogiorno automaticamente su­balterno e «arretrato» rispetto al nord del mondo. Sebbene si tratti di un inquadramen­to elaborato negli ultimi due secoli dai poteri forti dell’Europa nordica, industrializzata e moderna, il vero problema risiede nell’accetta­zione passiva dell’idea di una modernità omo­genea che ha il diritto di imporsi unilateral­mente. Questa è niente altro che una visione «coloniale». Il «progresso» non è una realtà o una forma unica, ma un’interpretazione delle forze e delle risorse che riusciamo a raccoglie­re e registrare.

Muoversi con la bussola di una modernità multipla, aperta, ancora nel suo divenire, si­gnifica adottare una cartografia diversa, più estesa, meno locale e provinciale. Con una mappa di questo tipo possiamo passare dal Mezzogiorno al Mediterraneo per arrivare al mondo nella scia di quel «pensare mondial­mente » di Antonio Gramsci. In questo spazio critico la questione meridionale acquista tutta una serie di dimensioni che la arricchiscono e mette in movimento una storia che sembre­rebbe invece imbalsamata in un destino fatal­mente conclusivo. Grazie alla nostra mappa di una modernità multipla, scopriamo che la di­visione tra il Sud e il Nord dell’Italia esisteva ben prima del momento dell’unificazione na­zionale e coinvolgeva una serie di forze «ester­ne ». Già alla fine del Settecento il traffico mer­cantile del Mediterraneo era dominato da Lon­dra, la città di Napoli non aveva una flotta rile­vante e quasi tutto il commercio del Regno del­le Due Sicilie veniva caricato su navi inglesi. Il passaggio di prodotti agricoli dal sud della pe­nisola verso il nord artigianale (certamente non ancora industrializzato) passava attraver­so l’intermediazione di mercanti inglesi; quin­di, la dinamica dell’economia politica «inter­na » della nazione futura era già spezzata dagli interessi commerciali di Londra (come gli in­glesi fecero più tardi in India e Cina). Un seco­lo dopo, la sconfitta della Repubblica Parteno­pea fu sigillata dalla presenza della flotta bri­tannica ancorata nel Golfo di Napoli. Questa presenza non era casuale né semplicemente spiegabile nei termini della passione dell’am­miraglio Nelson per la moglie del console bri­tannico presso la corte di Napoli. La marina britannica si trovava nel Mediterraneo per lo stesso motivo per cui si ritrovava anche nel mar dei Caraibi e nell’oceano Atlantico, su or­dine di Londra nella lotta pluridecennale tra la Gran Bretagna e la Francia per l’egemonia mondiale.

Questi due esempi ci suggeriscono che il sen­so della questione meridionale e quello della città di Napoli non possono essere concepiti nella loro complessità profonda al di fuori dei processi planetari. Senza questo taglio, senza la disponibilità di andare fuori quadro, la possibi­lità di una cultura critica, aperta, svanisce nella logica schiacciante di un’eredità già confeziona­ta. Qui ci si ritrova a confrontarsi con il peso mortale della linearità, o destino, propagata dal­lo storicismo (a sua volta declinato nell’autori­tà variegata del positivismo, della «verità» filo­logica, e riprodotto fino ai giorni nostri in tanti rivoli deterministici vestiti della loro «scientifi­cità »). Si tratta della forza della «rivoluzione passiva» che ha profondamente modellato la cultura umanistica italiana, imponendo il divie­to di ripensare il passato per aprire il presente a diverse configurazioni. Il presente risulta vitti­ma di una storia scritta altrove, fuori mano, fuo­ri controllo: questo è il destino. Siamo condan­nati a dialogare sempre con lo spirito della sto­ria di Croce, mai con gli interventi umani pro­posti da Vico e da Gramsci.

In questo scenario, dove ci si rifiuta di conte­stare la versione egemonica della storia, e l’im­placabilità lineare del suo «progresso», i guai reali prodotti dalla stessa modernità, i suoi ri­fiuti, le sue disfunzioni, possono essere sempre scaricati altrove, in luoghi considerati non an­cora moderni: il sud dell’Italia, il sud dell’Euro­pa, il sud del mondo.

Questo «destino» che apparentemente bloc­ca la possibilità del dissenso intellettuale o del­la rottura culturale, bloccando quindi una vera apertura critica all’interno della propria cultu­ra,

si sconta con la mancanza di una vera cultu­ra democratica. Non sto parlando della demo­crazia in termini formali e istituzionali, ma di quella reale, sentita e vissuta nei dettagli del tes­suto quotidiano. Si tratta di qualcosa di verifica­bile in ogni angolo della vita: dai rapporti feuda­li che albergano nell’università italiana, all’ubi­quità dei titoli sparsi nel mondo pubblico («dot­tore »,«professore» «avvocato», «cavaliere»…), al concetto del cosiddetto «onorevole» (preso in prestito dal Parlamento inglese, dove l’uso è ristretto esclusivamente all’interno dei dibattiti parlamentari) e la sua aura di potere extra-isti­tuzionale che viaggia molto lontano in un vuo­to culturale riempito dalla promessa magica della «politica». Ormai le formalità del potere e la retorica della politica sono dappertutto, men­tre la cultura resta un’appendice.

Caro direttore, in questo quadro, dove la cul­tura istituzionale tende a funzionare flebilmen­te e acriticamente, producendo quello che nel tuo libro Mario Rusciano definisce un «deficit intellettuale», sarebbe il caso di prendere in considerazione l’idea che l’istruzione — dalla scuola all’università e oltre — fornisce una ve­ra componente infrastrutturale. Qui, invece, tocchiamo una vera assenza nella formazione nazionale, quel buco nero della cultura italiana prodotto nell’arco di vari decenni da un manca­to investimento economico (e politico) nello studio e nella ricerca; un investimento tra i più bassi dell’Europa e del Primo Mondo. Combina­to con il vizio elitario degli «uomini di cultura» (sic) nell’elaborare il senso stretto della Cultu­ra, ci si trova poco preparati ad affrontare la so­cietà della conoscenza in arrivo. Ed invece è proprio qui, tornando alla premessa iniziale, nella formazione critica e culturale che le prassi di cittadinanza e l’elaborazione dei valori demo­cratici prendono forma e vita. Qui non è la poli­tica che può «aggiustare» il quadro, ma la for­mazione culturale, i linguaggi della conoscenza (dalla storiografia critica ai linguaggi dell’arte) possono offrire la possibilità di pensare, ripen­sare e riconfigurare criticamente il mondo del­la modernità. Il problema è un problema cultu­rale destinato ad incidere sul senso stesso della democrazia, ed è per questo che diventa un pro­blema politico.

L’università italiana, che si è nascosta negli ultimi anni dietro tante riforme istituzionali, ha ingegnosamente evitato la forza critica della discontinuità: la novità non è mai vista come rottura o cambiamento profondo, ma rappre­senta solo una serie di aggiunte e aggiustamen­ti che contribuiscono a perpetuare la rivoluzio­ne passiva della società italiana. L’ultima rifor­ma universitaria di stampo «europeo» offriva la possibilità di un rinnovamento didattico per ridurre notevolmente il numero delle materie e degli esami, attraverso l’adozione di percorsi di­dattici innovativi e il cambiamento profondo del senso degli studi. Tra le «lobby» accademi­che, lo storicismo indelebile di gran parte del corpo docente, e le discipline che spesso rifiuta­no di innovarsi e continuano a «disciplinare» il corpo studenti, ci ritroviamo con una moltipli­cazione di corsi e moduli, affiancati da catego­rie storiche tutte italiane come «fuori corso», «non frequentanti», «appelli mensili», e studen­ti a cui è richiesto di affrontare due o tre volte il numero di esami dei loro colleghi nel resto d’Europa. Volgendo il nostro sguardo solamen­te verso la Spagna o il Portogallo, dobbiamo concludere che l’università italiana è alla deri­va, il suo sguardo resta volto prevalentemente indietro, mentre si trova sospinto verso un fu­turo in cui non sa tracciare il suo percorso.

Cruciale è a questo punto insistere sul senso gramsciano (e foucauldiano) di cultura: il Pote­re non è uno spazio fisso da conquistare o di­fendere, ma è il luogo mobile di una serie infini­ta di processi culturali molecolari; e questi pro­cessi richiedono un’articolazione democratica per sostenere una sfera politica che dissemini una responsabilità individuale e collettiva. Allo­ra sorge spontaneamente la domanda: è la poli­tica che fa cultura, oppure è la cultura che fa la politica? Se optiamo per la seconda risposta, co­me la storia, l’antropologia, la sociologia ci sug­geriscono, dobbiamo condividere con Gramsci l’idea che la cultura è la questione chiave del potere. Vogliamo imparare dalla congiuntura attuale? Il berlusconismo è una forza e una for­ma soprattutto culturale, che promuove un mo­do diverso di concepire e comprendere la politi­ca. Forse le legislature precedenti avrebbero do­vuto dare più attenzione all’idea che il «territo­rio » è la televisione, e che la piazza di una volta è lo schermo del video di oggi, per meglio ga­rantire questi spazi.

Pubblicato il 24 giugno 2009, in Politica, società con tag , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.

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